Vicenda Caseificio di Monterotondo: 'Cgil mette in guardia la proprietà'

Pierpaolo Micci: «in azienda comportamenti vessatori e lesivi della dignità di chi lavora. 20 dipendenti su 22 si iscrivono alla Cgil e sono pronti allo sciopero. Clima intimidatorio, ora basta». Monterotondo Marittimo: «È imbarazzante nel 2020 dover sollevare un problema serio di atteggiamenti da padroni delle ferriere e di mortificazione della dignità di chi lavora, oltretutto in un’azienda partita nel 2014 come start up che è in buona salute sotto il profilo produttivo e non ha attivato la cassa integrazione nel periodo d lockdown».

A denunciarlo la Flai Cgil, per bocca del segretario provinciale Pierpaolo Micci, che stigmatizza quanto sta succedendo al Caseificio San Martino di Monterotondo Marittimo, gestito dal gruppo “Busti”.

«La situazione è paradossale – spiega Micci – perché pur in costanza del pagamento a cadenza regolare degli stipendi, ma in presenza di contestazioni su straordinari e apprendistato, e di assenza di cassa integrazione, ci troviamo con 20 dipendenti su 22, con due che non lo fanno per timore di perdere il lavoro, che s’iscrivono alla Cgil e sono pronti a scioperare. Oltre al fatto che dal 2014 ad oggi, sono stati 40 i lavoratori allontanati o che hanno lasciato l’azienda per il clima intimidatorio instaurato da chi la gestisce.

Come Cgil – spiega il segretario ella Flai – insieme ai nostri rappresentanti della Rsu abbiamo tenuto un atteggiamento costruttivo, chiedendo il rispetto della parte normativa del Ccnl e corrette relazioni sindacali. Avendo chiaro che sul luogo di lavoro la dignità delle persone ha lo stesso peso della retribuzione. Lo abbiamo detto in modo chiaro nell’incontro del 25 agosto al titolare dell’azienda Massimiliano Busti, al suo legale Agostini e al suo consulente del lavoro Zambarda: l’atteggiamento prevaricatorio e offensivo nei confronti di chi lavora, deve finire. Altrimenti darà muro contro muro, fino allo sciopero.

Troppi sono gli episodi. Dal cambio “selvaggio” di turni e orari di lavoro dalla sera alla mattina, spesso con intento punitivo. Con una modalità mista, tra una reperibilità imposta e un contratto a chiamata. E il direttore di produzione che comunica ai dipendenti un orario, prontamente smentito dal direttore di stabilimento. Alle maggiorazioni non applicate correttamente per quanto riguarda il lavoro notturno e il lavoro domenicale, come nel caso degli autisti. Fino all’utilizzo dei contratti d’apprendistato in un modo scorretto, senza nessuna formazione effettuata da turtor aziendali. O addirittura apprendisti che venivano lasciati il fine settimana a lavorare da soli, con i conseguenti gravi rischi.

In caso, arrivando anche al licenziamento di un’apprendista ritenuta inidonea dopo anni, se non che la stessa persona era stata utilizzata per istruire altri lavoratori nel “reparto della colorazione”. Un atteggiamento vessatorio inaccettabile, oltretutto peggiorato quando in passato quella stessa lavoratrice era andata in maternità.

Fatti cui si sono aggiunti lettere di contestazione immotivate per errori inesistenti e in assenza di formazione specifica; sanzioni formali comminate inveendo in modo offensivo nei confronti dei lavoratori; mansioni di responsabilità affidate ad apprendisti e non a operai qualificati; accuse infamanti nei confronti di chi svolge attività sindacale.

Come abbiamo detto a chiare lettere alla proprietà – aggiunge Pierpaolo Micci – il lavoro non si esaurisce nella retribuzione, ma comprende anche il rispetto delle persone e del galateo delle relazioni sindacali.

Se un datore di lavoro considera i propri dipendenti incapaci, arrivando a dichiarare che “devono essere grati all’azienda, se ancora sono lì dentro”, o se ne mette in discussione l’onestà, sostenendo che gli “straordinari sono frutto della loro incapacità”, questo significa che si è davvero perso il senso della misura.

Insistere nel minacciare il sindacato, evocando la riduzione del personale o l’attivazione della cassa integrazione se viene chiesto un euro in più nel rispetto del contratto collettivo di lavoro, porterà solo allo scontro. Anche l’ipotesi ventilata dal dottor Zambarda, e non smentita da Busti, di risolvere i problemi facendo gestire il caseificio ai dipendenti in forma cooperativa, fa parte di un repertorio di minacce i cui siamo stanchi.

Per questo – chiude Micci il suo intervento – ribadiamo la volontà di trovare soluzioni condivise, ma anche quella di rifiutare fermamente certi atteggiamenti lesivi della dignità di chi lavora. Su questo siamo pronti ad arrivare allo sciopero. A buon intenditor, poche parole».