‘Tra gravitas e leggerezza, la vita in cammino’

di Tindara Rasi Leggendo “Ogni passo fa nascere una brezza. Rinascere sul cammino di San Francesco”, di Eric Minetto, edito da Lit Edizioni – Edizioni dei Camini, non si sta fermi nel proprio cantuccio, sulla propria comoda poltroncina: i piedi fremono, la mente viaggia.

Dopo un intervento al piede, l’autore ha infatti deciso di attuare una sorta di gesto di ringraziamento per la guarigione avvenuta, completando per cammino immersivo, per cammino suppletivo, il tratto di strada che San Francesco, malato e morente, non riuscì a compiere negli ultimi momenti della sua vita. Minetto, guarito dal suo piede malato, non facendo nemmeno i conti con l’analisi delle sue stesse resistenze umane, concepisce e mette in atto questo ex-voto ambizioso: prestare follemente i suoi piedi a San Francesco per fare con lui/per lui/in vece sua il tratto di strada che da La Verna porta ad Assisi. Non si tratta di mezz’ora di cammino, ma di giorni interi al posto di. E in quell’interscambio non consecutivo ma partecipativo, trascina anche il lettore con una sorta di actuosa participatio missale. La sua impresa rimanda alla mistica della riparazione, quella dei cristiani che “riparano” ai patimenti di Cristo, che contribuiscono al corpo mistico patiens. Parte di un tutto più grande, dunque, anche questo usarsi a “prestito” umano per un Santo che lasciò qui il suo fisico in pegno, elevandosi lassù a etereità sacra. Minetto rende omaggio alla contemporaneità reale di Franciscus passus assisiensis, usando l’unica cosa che lo rende pro-alteritas, bene mediazionale infrapersonale: il suo stesso corpo, arti, pelle, occhi, piedi. Ma occupandosi di yoga e di scienze orientali, nel cammino intrapreso mette in campo anche strategie di mindfulness, di counseling, di teorie orientali, di spiritualità (nel senso più esteso che la mera religio), e di percezione corporea del sé, tutto nei giusti dosaggi. Il suo non è un libro cattolico cristiano in senso stretto, dunque. É un percorso: il piede va avanti a volte saldo, a volte vacillante, sulla concretezza del “terreno”, quello fisico, fatto di pietre sgranellate e di pulviscoli, ma anche quello della storicità umano-temporale e della gravità terrestre corporea. Poi però non rimane “a terra”: viaggia anche sulla “concretezza psichica” dell’oltre, del pensiero “filosofico”, dell’immanente mentale. L’autore non intende donare un libro cartaceo a un lettore, ma un bene infraumano, un riflesso di pensiero applicato, di allineamento cosmico oblativo. Il “battito universale” oltre la realtà sensibile, che diventa respiro pandemico. L’allaccio mentale, l’energia interpsichica tra chi è da una parte e scrive, e chi è dall’altra parte e legge. Per donare questo ad altri, scarnifica non solo se stesso. Scarnifica il proprio processo mentale che respira di fresco senza “proposizioni consecutive” e ridondanti, senza zaini pesanti sulle spalle e tra la lingua. Scarnifica la propria scrittura, che si slava sotto la pioggia, per lasciare intatta una sola lettera indicatrice del percorso, una Tau gialla. Non ci vogliono eccessi, gli suggerisce San Francesco, infatti. Basta un lenzuolo, per scrivere. Basta una lettera per indicare il percorso, per darci il “libro” che necessitiamo. E se si ascolta bene, è il vento che sfoglia le pagine, smuovendo le foglie degli alberi attorno: non ci serve altro. Cosa c’è in quella brezza, in quel respiro? C’è la creazione che geme, soffre ed è in travaglio (cfr Rm 8,22) perché non riesce a vivere il miracolo di “camminare sospesa sul vuoto” e nel contempo restare appoggiata sulla terra, “lieve, però, come se si camminasse sul cielo”. C’è la creazione che attende di unirsi in un unico afflato liberato da pesi inutili. E c’è quel vento spirituale, quella brezza leggera e naturale che arriva e sospinge lievemente, eleva, afferra, alleggerisce, permette il volo… Se siamo nella giusta corrente, ne veniamo sospinti senza neanche accorgercene e voliamo anche noi, leggeri tra i cirrocumuli.

San Francesco ci è riuscito: non è nella cerchia dei beati per un’onorificenza e un fastigio pinnacolare personale, ma per “montare di guardia alla bellezza del creato”. E da lì, il maestro santo prende dal Santo Maestro e consegna al pellegrino camminatore insegnamenti ruvidi ma efficaci, affinché li rimandi ad altri, in un sistema di diffusività fraterna della “semplicità”, parola a lui tanto cara. Aprendo la porta francescana del suo memento terreno, non si trova infatti nessuna pietra scintillante e preziosa, nessuna ricchezza materiale, ma il sasso nudo, il corpo nudo. Nel cammino, lo zaino troppo pesante storce la colonna vertebrale, gli scarponi scarnificano i piedi. Ci vuole lievità e slowness, in modo da riconoscere un ramo innocuo da un serpente pericoloso disteso in mezzo alla trazzera. Bisogna essere presenti a se stessi, non avere l’urgenza della meta finale, ma quella del percorso da godersi hic et nunc. Per San Francesco l’essenzialità era un bastone, un sandalo, un saio ruvido cucito e ricucito con la ginestra, uno con il cappuccio per ripararsi dalla luce eccessiva, visto che stava diventando cieco e aveva problemi agli occhi. Non bisogna “appesantirsi inutilmente durante un viaggio, quello della vita… ma imparare ad alleggerirsi, a farsi respiro”. Bisogna ricercare “la felicità a prescindere” buttando via le zavorre che non servono, dice l’autore. D’altronde “Francesco è in ogni passo che in piena coscienza decidiamo di non fare”, non in quello che decidiamo di fare o in tutto ciò che decidiamo di “trattenere”. Questo non significa che materialità, intenzione e volizione siano da demonizzare, ma che se scardiniamo schemi di filodossia comune, comprendiamo che tutto concorre al bene interiore e spirituale a volte anche in modo curiosamente apofatico. È in questa struttura di senso che alla fine lo scrittore in cammino, decide di non fissare nessuna bandierina sul suo Google Maps personale, raggiungendo mete fin troppo commerciali e inflazionate. Sa che siamo eterei e partecipativi di un’unica energia viva che eternizza i nostri passi, se smettiamo di pesare sulla polvere con una gràvitas che ci rallenta soltanto. La meta non è qui. O forse, la meta non esiste, esiste la vita ed è perenne. Esiste in quel lieve insufflare durante il krònos le particelle di ossigeno buono che ci consegna il polmone dell’universo. Ed esiste in quel gesto semplice e molto francescano di spandere a nostra volta, al respiro storico creaturale, al kàiros oltre l’archeo, il profumo di citronella dei nostri vasi personali (cfr San Paolo, 2Cor 2,15), eleganti e preziose sentinelle a guardia dell’aere sui balconi delle case.